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La discarica dei computer in Cina

  • Immagine del redattore: Admin
    Admin
  • 3 dic 2017
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 4 dic 2017

L’emergenza spazzatura investe anche il mondo dei tecnorifiuti, che in gergo vengono chiamati e-waste, o più semplicemente “immondizia elettronica”.





Ogni anno nel Mondo vengono prodotte 40 milioni di tonnellate di rifiuti hi-tech, dei quali i maggiori produttori sono gli USA, circa 3 milioni di tonnellate, seguiti dalla Cina con 2,3 milioni di tonnellate.

Il problema maggiore derivato dai rifiuti elettronici è che non vengono previste adeguate misure di smaltimento. Inoltre, la crescita esponenziale della domanda di prodotti elettronici, soprattutto da parte delle economie emergenti, rischia nell’arco del prossimo decennio di far collassare il pianeta: ai ritmi attuali di smaltimento, infatti, entro il 2020 in India la quantità di e-waste prodotti aumenterà del 500% rispetto all’anno 2007, mentre in Cina l’aumento pare essere leggermente più contenuto, con valori tra 200 e 400%. Ma dove finiscono tutti questi prodotti elettronici una volta esaurita la loro utilità? La maggior parte dei rifiuti e-waste prodotti nel Mondo, circa l’80%, viene inviata in Cina, a Guiyu, nella Provincia del Guandong, mentre la restante parte dei rifiuti elettronici prodotti a livello mondiale prende la via di India ed Africa.


La più grande discarica della tecnologia si trova in Cina, a Guiyu, centro di uno dei più gravi disastri ambientali fuori controllo. Gli apparecchi elettronici eliminati, giungono qui per essere smaltiti e riciclati; il tutto avviene però senza alcuna regola né controllo per l’ambiente, la salute o la sicurezza. Gli apparecchi elettronici vengono smembrati in officine a cielo aperto, da operai che lavorano a mani nude, senza alcuna protezione.

Vengono così smontati vecchi computer, fotocopiatrici, televisori, batterie per auto, forni a microonde, cellulari, stampanti, elettrodomestici, e tanti altri prodotti dai quali è possibile recuperare metalli preziosi come l’oro e il rame. Ogni apparecchio viene scomposto nelle sue componenti essenziali: dai fili elettrici viene recuperato il rame, i circuiti stampati vengono sottoposti ad un bagno acido per separare i metalli preziosi (quali oro e palladio), e la plastica viene recuperata o, in casi estremi, bruciata per permettere il recupero di piccole parti metalliche non altrimenti separabili.

Durante queste operazioni fumi, ceneri e sostanze tossiche vengono rilasciati sia nell’aria che nel suolo, provocando in questo modo un danno ambientale immenso. I corsi d’acqua della zona sono neri e pieni di rifiuti; la quantità di acido contenuto nell’acqua è talmente elevata che basterebbe per sciogliere in poco tempo una monetina di rame.


Se i danni ambientali sono enormi, altrettanto lo sono i danni alla salute degli abitanti della zona. Secondo uno studio condotto dal Professore Huo Xia, della Facoltà di Medicina dell’università di Shantou, nell’82% dei bambini tra 1 e 6 anni si riscontrano concentrazioni di piombo nel sangue tali da poter causare danni al

cervello ed al sistema nervoso centrale. Sempre dalla stessa ricerca emerge un’elevata percentuale di danni alle ossa, gastriti e ulcere intestinali, mal di testa e vertigini frequenti.

Le condizioni in cui versa Guiyu, sono le stesse dei paesi indiani e africani nei quali sono presenti le medesime discariche.

Risulta ora necessario chiedersi perché i rifiuti tecnologici finiscono in queste città, i quali governi tentano di tenere segrete. Lo smaltimento dei RAEE, ossia Rifiuti derivanti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche, nei paesi in via di sviluppo è stata e continua ad essere tutt’oggi, una pratica utilizzata in quanto soluzione più vantaggiosa in termini economici. Smaltire in regola, secondo quanto prevedono le leggi, ha un prezzo molto elevato, mentre lo smaltimento abusivo può costare fino a 10 volte meno, senza contare che i Paesi nei quali finiscono questi rifiuti ne ricavano guadagno dai materiali recuperati.

Nonostante dal 1989 sia stata ratificata da 172 Paesi la Basel Convention, un trattato internazionale sul movimento transfrontaliero di rifiuti tossici, che vieta il loro smaltimento sul territorio di Paesi in via di sviluppo, questa pratica risulta essere tuttora in atto. Anche se dal 1998 l’Unione Europea ha reso effettivo il divieto sancito dalla Convenzione di Basilea, alcuni Paesi fortemente industrializzati, come ad esempio gli USA, Canada o Nuova Zelanda hanno rifiutato di firmare tale accordo.

Il problema della pericolosità dei rifiuti tecnologici e della loro esportazione illegale può essere risolto. Per scongiurare che il problema porti ad una crisi di grandi proporzioni le aziende dovranno impiegare produzioni più sicure ed assumersi la responsabilità di ciò che immettono sul mercato. Solo l’attuazione del principio di “responsabilità del produttore”, per cui le aziende si impegnano a produrre beni puliti e durevoli facili da riparare, riciclare o smaltire in sicurezza, potrà fornire la giusta strategia ad una problematica che altrimenti non vedrà arresto.

 
 
 

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